Giustizia ingiusta
Scrivere di giustizia in Italia è come scrivere su un’interminabile pagina di un libro senza fine, senza luce. Un libro dove in ogni passo si adombra il rispetto della giustizia come valore, come istituzione, come momento di riequilibrio del danno arrecato da un’azione delittuosa alla società civile prim’ancora che all’individuo. Ma dove, in ogni passo, continua ad adombrarsi l’ambiguità di un modello non perfetto, ambiguamente adagiato sul rito accusatorio da un sistema inquisitorio che sopravvive nella mancata riforma dei ruoli e delle funzioni. Un’ambiguità che vorrebbe attribuire la difesa del diritto sostanziale e del diritto positivo ad una dimensione autocratica e non autonoma ed indipendente di un potere sul potere. La giustizia in Italia, che non sconfigge nulla se non se stessa giorno per giorno, sembra essersi orientata a percorrere una deriva cara a Sciascia dal momento che si implode in pensieri così profondi, ormai, che non si vede più niente dove tutto è mafia e nulla è mafia. Per usare un incipit di Sciascia, “[…] a forza di andare in profondità, si è sprofondati […]”. In effetti, oggi, se esiste, “[…] soltanto l'intelligenza, l'intelligenza che è anche leggerezza, che sa essere leggera, può sperare di risalire alla superficialità, alla banalità […]”.