
La periferia francese, insomma, non è solo uno spazio di urbanizzazione di masse operaie destinate a sostenere sforzi industriali. Essa è un luogo di aggregazione di marginalità che scontano il prezzo di politiche coloniali votate all’assimilazione, incapaci di produrre economie nelle ex-colonie e produttrici, a loro volta, di immigrazione nel territorio metropolitano nella speranza, per chi è sbarcato in Francia, di poter accedere a opportunità di crescita pari ai francesi. In questa contraddizione sopravvissuta alla caduta del muro di Berlino, alla escalation terroristica e al mutamento dei modelli economici orientati verso la flessibilità e la specializzazione delle attività umane, la logica postcoloniale man mano ha perso terreno evidenziando due grandi errori. Il primo, nel fallimento di un tentativo di rimodulazione culturale senza opportunità di crescita con il mantenimento di isole di marginalità significative a ridosso degli spazi più ricchi. Il secondo, nel restituire le identità che si vorrebbero integrare alla memoria storica delle culture di provenienza, delle generazioni precedenti.
Una memoria che si trasforma in bene rifugio per identità perdute che si prestano alla manipolazione di chi tenta di sfruttarne la violenza. Non solo. Nella banlieue francese non si esaurisce nemmeno un ciclo di relazioni maturate nelle periferie culturali, oltre che sociali di comunità multietniche, alternativo alla globalizzazione. Bensì inizia una fase di recupero di identità che deve essere gestita da chi ha il potere e le possibilità per farlo con particolare sensibilità con la difesa di valori sociali occidentali, questa volta proposti come modelli di integrazione, economica e sociale, laica nelle nostre comunità per chi mantiene una cultura propria. Valori presentati come possibilità di inserimento nel mondo del lavoro e di sostegno anche alle fasce più deboli delle nostre comunità. Non vi sono altre soluzioni. Alla porta vi è solo il rischio di favorire una convergenza pericolosissima, un’emulazione che si svolgerebbe in una lotta meticcia che unirebbe l’insicurezza dei giovani europei con il senso di vuoto e la crisi d’identità dei coetanei che europei lo sono meno.
Una lotta dove prevarrebbe il dissenso violento per politiche dissennate che propongono una visione aziendalistica di organizzazione delle società. Una visione che non può dimenticare la logica sociale della crescita dell’individuo che nello Stato deve trovare l’unica opportunità di realizzazione e l’unica istituzione capace di garantire il superamento delle diversità, la difesa della cultura sovrana delle comunità che rappresenta e l’intelligenza di offrire, senza mortificare la diversità delle origini, le giuste condizioni per chi vuol fare parte di questa nuova società. Una prospettiva culturale, sociale, economica e politica verso le periferie, insomma, che deve assumere un atteggiamento di autocritica per verificare se le istituzioni siano fondate o meno su un consenso ampio, se la base etnica dominante possa avvalersi dell’interculturalità delle minoranze per affermare se stessa e garantire la sopravvivenza delle altre, se il sistema politico sia più o meno in grado di adattarsi ai mutamenti storici e alle condizioni poste dalle comunità governate.
Per valutare, in altre parole, se uno Stato sia capace di darsi un insieme di strutture idonee a garantire una partecipazione diffusa al processo di sviluppo favorendo possibilità di accesso alla ricchezza. Per decidere oggi se la periferia può perdere quella dimensione di non luogo, dell’essere lo spazio del non vedere, in fondo, le politiche, gli effetti e le contraddizioni del centro. Le contraddizioni di quelle comunità sempre meno opulente, che rischiano di trasformarsi in deboli banlieue incapaci di reagire a loro volta se non sostenute da una sincera condivisione di un futuro che non può che non essere comune e solidale. Quella solidarietà che nasce dalla condizione di marginalità e dalla cultura sociale di prossimità che è propria della periferia francese.