
E proprio di fronte ad un simile aspetto, di semplicità di previsione giurisdizionale e di opportunità politica, nella sentenza di condanna a morte manca qualunque ragionevole argomentazione per credere che altrettanto politicamente la decisione così presa sia stata la scelta migliore. In realtà nelle imputazioni a carico non dovrebbe esserci solo l’eccidio di Dujail con la morte di circa centocinquanta sciiti, c’è il massacro dei curdi e le vittime di regime che hanno costellato di sangue una stagione molto lunga della storia del popolo iracheno. Ciò nonostante, non ci si deve dimenticare che la sopravvivenza, sino a qualche decennio fa, della dittatura baasista di Saddam Hussein rientrava nella logica di opportunità strategica dell’Occidente.
Lo stesso Occidente che oggi crede che con la condanna a morte possa liberarsi di un’eredità difficile da gestire, un’eredità che nemmeno una guerra priva di soluzione politica e militare è riuscita a definire e risolvere. La verità è che nel Medio Oriente più prossimo, di fronte ad una dilagante minaccia del radicalismo ideologico islamico, la vera partita si gioca sull’affermazione di alcuni valori che sembrano privi di universalità, di condivisione. Una condanna a morte, per quanto il dramma del popolo iracheno possa giustificare una simile scelta, non può non guardare a quanto accade in un Paese a sovranità relativa, quotidianamente. Ciò che si osserva è che il valore della vita, il supremo rispetto dell’altro siano privi di una percezione comune del significato del non uccidere.
Così, non è con una condanna a morte che si è affermato un sentimento di giustizia e di rispetto. Di fronte ad un attacco quotidiano alla vita altrui condotto nelle strade dell’Iraq, una sentenza di condanna non assume né il carattere di giustizia soddisfatta né rappresenta un monito di deterrenza. Il disvalore che si può associare all’offesa della vita altrui, che si realizza giorno dopo giorno in Iraq, è così minimo che una condanna a morte non afferma nulla. Nulla di più che dare risalto ad un ennesimo sentimento di vendetta, di un odio che si riproduce nelle comunità irachene e che nessuna capacità militare o politica riuscirà a contenere senza una maturazione di valori riconosciuti nell’intimo delle coscienze degli individui.
Una condanna a morte può avere diversi significati, alcuni anche comprensibili se si vuole. Ma può anche rispondere a valutazioni di opportunità politica. Non condannare a morte Saddam Hussein, per quanto siano esecrabili i suoi atti e le angherie commesse nei confronti del popolo e delle comunità dell’Iraq, sarebbe stata in questo momento una necessaria dimostrazione di forza. Mantenere in vita Saddam Hussein, ancorché punito con l’ergastolo, sarebbe stato un gesto di fermezza ideologica, di affermazione del valore della vita in un Paese nel quale la vita non assume alcun significato di tutela, di rispetto, ma diventa una merce di consumo per le logiche di potere di un terrore diffuso negli animi di ogni cittadino. Significava dare alla vita il valore di diritto universale che trionfa al di sopra di ogni altro valore riconosciuto, al di sopra di un sentimento di vendetta consumato nella morte sterile di un dittatore; una morte ormai inutile anche per l’Occidente, ma con il rischio di trasformarlo da criminale in martire.