
La sola stabilizzazione dell’Iraq non è un buon motivo per scegliere un impegno fuori area, soprattutto se questa è funzionale a valutazioni strategiche definite altrove e quindi difficilmente valutabili in termini di interesse nazionale. La politica estera diventa oggi uno strumento di promozione e di immagine di uno Stato e di una classe politica che cerca un accreditamento esterno. Ma essa è anche uno strumento delicatissimo di relazioni politiche e strategiche di verifica delle capacità di un Paese di costruirsi un’immagine esterna ottimizzando le proprie risorse attraverso la concretizzazione di un fine. Un anno fa, a ricordo di un tristissimo e indelebile evento che ci ha colpito per la prima volta, un’autorevole voce ha strenuamente difeso l’impegno italiano in Iraq indicando che lo sforzo, deciso nell’immediatezza e all’interno di un contesto realizzato da terzi, era tale perché valutato all’interno di un progetto.
Un progetto, però, di cui non si sono mai delineati i termini contestualizzandolo almeno in un’ipotesi strategicamente di interesse per il paese e per l’Unione europea. Così, tutto ciò rischia di sminuire la credibilità politica occidentale ancora una volta se le elezioni irachene si dimostreranno solo parzialmente democratiche e se a un disimpegno delle forze non seguirà una valida capacità interna di assicurare un ordine sostenibile. Il rischio di doverci tornare è tanto pericoloso quanto lo è il prolungamento dell’impegno in una regione che oggi, di fronte a un gioco al gatto col topo sul nucleare iraniano, rischia di coinvolgere l’Occidente attraverso Israele in una nuova competizione fuori area. Questa volta con l’Iran. Ma l’Iran non è l’Iraq. Un’ennesima guerra preventiva e unilaterale, se diretta contro Teheran, non riuscirà a prevenire nulla di più di quanto non sia stato già previsto dal regime sciita iraniano dal primo momento dell’attacco a Baghdad. Ma una valutazione di ordine strategico è troppo per una classe politica poco lungimirante e priva da sempre di una cultura internazionalistica e di capacità di analisi strategica, preoccupata di sdoganare una forza ideale sempre più virtuale affermando una politica estera molto declaratoria ma poco propositiva.
Certo, la guerra al terrorismo per G.W. Bush è stata un buon motivo per allargare la sua capacità di azione politica e di controllo strategico delle riserve petrolifere dell’Asia Centrale e del Golfo, ma ha anche offerto all’Iran un’occasione storica da sfruttare con cautela politica, provocando l’avversario ma sino al limite di un ritorno possibile. Per adesso. Se consapevoli di questo, forse a Sharm el-Sheikh si doveva discutere di come riuscire ad affermare un modello democratico diffuso, evitando che la democrazia venga ancora percepita solo come un valore occidentale perché risponde ad un preliminare istituzionale necessario per realizzare “un mercato” (ed è quanto gli Stati Uniti non hanno capito).
Percepire la democrazia come modello significa attribuire al modello in quanto tale un significato etico e giuridico sul quale far convergere un ampio consenso che garantisca stabilità alla costituzionalizzazione di uno Stato democratico. Così, ad esempio, laicità dello Stato, riconoscimento dei diritti civili, partecipazione alla vita politica dell’individuo se opportunamente promossi potevano diventare i motivi della crisi di un modello, quello iraniano, che sarebbe stata crisi del modello di repubblica islamica. La stessa guerra all’Iraq, le cronache iraniane, le manifestazioni di Parigi della scorsa estate hanno dimostrato quanto e quale fosse la sensibilità delle nuove generazioni arabo-islamiche verso il passaggio alla democrazia. Ma anche in questo gli Stati Uniti hanno evidenziato un limite nella previsione politica degli eventi.
La sconfitta di Saddam Hussein e il governo provvisorio di Allawi non dimostrano, infatti, l’ineffabilità della scelta dell’uso della forza, quanto la debolezza politica di investire in democrazia utilizzando un sistema protettorale artificiale. E il rischio di un Iran sciita in ascesa diventa la fine di qualunque progetto democratico allargato se non si riuscirà a coinvolgere le masse verso una nuova partecipazione al potere. La storia è fatta di occasioni ed è un peccato perderle. Così come l’Ucraina e la sagacia di Putin in questo momento insegnano all’Europa come il Vietnam di ieri avrebbe dovuto insegnare agli Stati Uniti di oggi.