Commentare il Paese dal di dentro non è semplice per vari motivi. Tra i tanti due in particolare. Il primo è rappresentato dal fatto che l’Italia è un Paese multisfaccettato, giovane per costruzione politica, diverso per esperienze culturali. L’Italia ha vissuto le ambiguità della fine di una guerra mondiale, la Seconda, trascinandosi nel tempo quel confronto tra antifascismo e anticomunismo che ha impedito ogni possibile processo alla propria storia e la costruzione di un modello politico semplificato nelle due aree ideali nelle quali l’italiano può riconoscersi. Un conservatorismo liberal-cattolico e una socialdemocrazia non autocratica. Un falso storico rappresentato dal quel monopolio culturale di un antifascismo comunista della resistenza che riporta l’anima liberale a rivendicare con non poche difficoltà il fatto che l’Italia ha vissuto negli ultimi decenni un contrasto politico e di potere dovuto ad una diversa visione di campo. Un’ambiguità che Edgardo Sogno mise molto bene in luce pagandone il prezzo ad un potere giudiziario politicamente molto ben “orientato”. Il vero antifascismo, la vera reazione al regime è stata e non poteva essere una che “[…]
scelta di posizione e di lotta contro il totalitarismo e la violenza politica e morale, un dovere verso l’umanità e un interesse nazionale […]”. Antifascismo – parafrasando Sogno – era “[…]
sinonimo di liberalismo, di tolleranza, di rifiuto della violenza politica, di rifiuto di qualsiasi rivoluzione marxista e non marxista […]”. Un’ambiguità culturale che ha fatto pagare al Paese il prezzo dell’instabilità, dell’ondivaga disciplina del proprio quotidiano, dalla scuola, all’economia, alla stessa sicurezza. Ma se guardassimo ad oggi si potrebbero richiamare le citazioni di Leo Longanesi, si potrebbe descrivere l’italiano come “[…]
totalitario in cucina, democratico in Parlamento, cattolico a letto, comunista in fabbrica […]
” e affermare, senza rischio di errori, che se c'è una cosa che in Italia funziona è il disordine perfezionando tanto sentire con la perentoria riflessione prezzoliniana per cui in Italia
“[…]
non vi è nulla di più stabile, certo,
del provvisorio […]”. Oppure ammettere che, in un certo senso, sopravvive la concezione ottocentesca abbastanza provinciale per la quale in Italia “[…]
scemando il sapere e la potenza meditativa, crebbe l'amore spasimato ed irragionevole della bellezza dell'abito esterno, lasciando a digiuno la mente e poco nutriti e mal governati gli affetti […]
” (
Terenzio Mamiani). Oppure che
“[…]
l’Italia, come dice Calvino, ricorda il lampione della storiella: l'ubriaco sta cercando la chiave sotto la lampada, un passante gli chiede se è sicuro di averla perduta proprio lì; no, risponde l'ubriaco, ma qui ci vedo […]”. (
Luca Goldoni). O credere che l’Italia sia un Paese in declino perché i propri argomenti sono ritenuti insufficienti a motivare una società che non reagisce nei contenuti ma solo nei sentimenti estemporanei. O dove la competizione, creando eccellenze (poche in verità) crea anche delle mediocrità; ed è allorquando queste ultime superano le prime che il conflitto si apre e l’orda dei potenti si chiude a riccio, per difendere uno stato di privilegi e di poche responsabilità.