
Oggi alchimie contabili o altre giustificazioni statistiche non rendono giustizia ad un modo di fare industria che non ha disarticolato le proprie capacità e risorse diversificando i settori produttivi e riqualificando le risorse umane al punto da rendere competitivo il gruppo nell’offerta di autovetture come nella componentistica e nelle altre tecnologie. La stessa ragione di investire su unità produttive integrate anche su mercati più facili dal punto di vista dei costi del lavoro, si pensi all’Est Europa o alla joint venture in Brasile e realizzata con l’Hitachi nipponica per le macchine movimento terra, non ha posto in essere quelle minime premesse necessarie per risanare un gruppo che sempre di più ha tutelato interessi dinastici e calcoli politici ai danni, oggi, degli stessi lavoratori.
In un mercato in cui i gusti cambiano e dove la qualità fa la differenza, dove il vantaggio competitivo è rappresentato dalle abilità delle risorse umane impiegate al meglio delle loro possibilità per un prodotto qualitativamente apprezzabile sembra che le ragioni della competitività delle case d’oltralpe non abbiano preoccupato o sensibilizzato la dirigenza Fiat. Rinnovare i prodotti rappresenta forse un rimedio con le stalle ormai aperte, ma riqualificare il processo produttivo per realizzare economie di scala, non più desuete ma realisticamente connesse con vantaggi intermedi, ne diventa il presupposto. Si vogliono incrementare le vendite sui mercati europei diminuendo la dipendenza dal mercato italiano.
Ma come attaccare un mercato esterno fedelmente ancorato ai propri prodotti quando il mercato nazionale non è fedelmente leale nei confronti dei propri? E non era già così quando si attaccava il mercato dei partner dell’Unione prima del mercato unico, offrendo prodotti a prezzi minori rispetto a quelli decisi, dalla famiglia e non dallo Stato, per il mercato nazionale? E come ridurre i costi dell’articolata organizzazione Fiat, elefantiaca quanto geriatrica, nella dimensione dai costi esorbitanti di maestranze asetticamente preparate solo per catene di montaggio? E quali strategie di marketing vincente si potranno realizzare sostenendo reti di distribuzione e di commercializzazione che non competono con le rigide regole di qualità imposte dai competitor europei ai loro rivenditori quando la customer fidelity è appannaggio di altre case costruttrici con flotte di tutt’altro livello e qualità?
Il vero problema, allora, non è fare solo ciò che non si è fatto sino a ieri, prevedere il mercato e articolare nuovamente i processi produttivi e riproporre nel mondo una qualità italiana dell’auto. Ma è utilizzare al meglio le risorse che una dinastia ha ricevuto dal contribuente in ragione di una necessità di restituire vitalità ad un sistema produttivo industriale che ha rappresentato da solo per anni il sistema Italia. Qualità e costi di un prodotto diventano, allora, simbolo di un mito costruito sulle capacità e non sulle opportunità di quello o quell’altro avvocato senza toga. La speranza è che, al di là di tutto, non ci si trovi domani su un’Alfa o Fiat made in Detroit.
In un mercato in cui i gusti cambiano e dove la qualità fa la differenza, dove il vantaggio competitivo è rappresentato dalle abilità delle risorse umane impiegate al meglio delle loro possibilità per un prodotto qualitativamente apprezzabile sembra che le ragioni della competitività delle case d’oltralpe non abbiano preoccupato o sensibilizzato la dirigenza Fiat. Rinnovare i prodotti rappresenta forse un rimedio con le stalle ormai aperte, ma riqualificare il processo produttivo per realizzare economie di scala, non più desuete ma realisticamente connesse con vantaggi intermedi, ne diventa il presupposto. Si vogliono incrementare le vendite sui mercati europei diminuendo la dipendenza dal mercato italiano.
Ma come attaccare un mercato esterno fedelmente ancorato ai propri prodotti quando il mercato nazionale non è fedelmente leale nei confronti dei propri? E non era già così quando si attaccava il mercato dei partner dell’Unione prima del mercato unico, offrendo prodotti a prezzi minori rispetto a quelli decisi, dalla famiglia e non dallo Stato, per il mercato nazionale? E come ridurre i costi dell’articolata organizzazione Fiat, elefantiaca quanto geriatrica, nella dimensione dai costi esorbitanti di maestranze asetticamente preparate solo per catene di montaggio? E quali strategie di marketing vincente si potranno realizzare sostenendo reti di distribuzione e di commercializzazione che non competono con le rigide regole di qualità imposte dai competitor europei ai loro rivenditori quando la customer fidelity è appannaggio di altre case costruttrici con flotte di tutt’altro livello e qualità?
Il vero problema, allora, non è fare solo ciò che non si è fatto sino a ieri, prevedere il mercato e articolare nuovamente i processi produttivi e riproporre nel mondo una qualità italiana dell’auto. Ma è utilizzare al meglio le risorse che una dinastia ha ricevuto dal contribuente in ragione di una necessità di restituire vitalità ad un sistema produttivo industriale che ha rappresentato da solo per anni il sistema Italia. Qualità e costi di un prodotto diventano, allora, simbolo di un mito costruito sulle capacità e non sulle opportunità di quello o quell’altro avvocato senza toga. La speranza è che, al di là di tutto, non ci si trovi domani su un’Alfa o Fiat made in Detroit.