
Una reazione recessiva fisiologica dal momento che gli assetti bancari si sono contratti di fronte ad un’esposizione debitoria per scelte di investimento su prodotti solo nominalmente rappresentativi di ricchezza o di merci. Prodotti finanziari e titoli scambiati sulle varie piazze attraverso vere e proprie scommesse di rendimento senza garanzie. Una scelta di massimizzazione del profitto sul titolo e non sul capitale reale o sul prodotto – bene o servizio - che ha reso le istituzioni creditizie e finanziarie complici di un modello globale di gestione della vita economica di ogni Stato, di ogni cittadino/risparmiatore al di là di ogni confine fisico e politico. Tuttavia, però, anche se questa è la prima e più evidente rappresentazione di un quadro complesso ma non troppo delle responsabilità ci sono ancora due momenti che intervengono a modificarne i contenuti e gli aspetti più evidenti delle conseguenze, se non anche il significato, di una crisi nota, voluta e rivolta soltanto al raggiungimento di un certo limite di sostenibilità dell’azzardo nella congiuntura dei mercati finanziari.
Il primo, giustificato dal fantasma della recessione, è il ritorno all’azione dello Stato nazionale, e all’intervento degli organi internazionali di governo, nella circolazione delle liquidità di fatto assenti da molto tempo nella vita finanziaria delle borse e dei sistemi creditizi. Il secondo è caratterizzato dalla volontà dei grandi gruppi finanziari di poter rimpinguare la crisi di liquidità con iniezioni di contante provenienti dalle banche centrali, sotto forma di prestiti garantiti, o dagli stessi governi in termini di interventi a favore, magari agganciati a provvedimenti di sostegno della spesa con una ripresa della circolarità del sistema reddito-credito-spesa-reddito dimenticandosi, però, della produttività. Nel primo caso, è evidente che il fallimento della deregulation venga pagato facendo ricorso a quell’interventismo statale denigrato in passato perché corporativo ma altrettanto corporativamente richiesto oggi.
Nel secondo caso è quanto meno curioso che si utilizzino formule e forme di sostegno dei consumi dove il cittadino si trasforma in uno strumento di acquisto veicolato perché funzionale alla ripresa di un mercato di beni a cui si chiede di rimettere in moto un sistema economico finanziariamente non reale. Un mercato che ha visto lievitare stipendi di manager e partecipazione agli utili come benefit con l’attribuzione di stock option che hanno alterato alquanto i rendimenti delle società a vantaggio di alte redditività, più che di produttività, per favorire le competenze stipendiali accessorie del management. Ora, di fronte ad una simile deriva economica ci si chiede quanto vi sia di speculativamente immorale e quanto, nel ricorso al pubblico, non vi sia di strategicamente voluto per arginare aspettative di risultato disattese e ricostruire assetti di ricchezza privata grazie al contributo di tutti. Sia nel primo che nel secondo caso, insomma, è evidente che vi è un interesse alla ripresa di un modello consumistico che possa ristabilire un certo ordine nella vita economica di una comunità.
Gli interventi finalizzati a favorire i consumi e le opere, piuttosto che quelli a favore della liquidità bancaria, sembrano rispolverare principi keynesiani orientati a incrementare la spesa pubblica trasferendo allo Stato l’onere di far ripartire il volano dell’economia. Se così fosse non ci sarebbe nulla di strano. Ma la scelta di coinvolgere assetti creditizi nella logica dei consumi e nella proliferazione delle carte di credito socialmente distribuite ai consumatori con un credito al consumo aperto, anche se limitato e posto sotto forma di sostegno alla spesa, sembra sovrapporre nobili sentimenti di assistenza ai meno dotati di capacità di spesa con quelli di ricostruzione di liquidità particolarmente sentiti dal sistema bancario e del credito in generale. Se così non fosse, allora, non si comprenderebbe perché tra i tanti provvedimenti tipici dei momenti di crisi, rivolti a distribuire sacrifici e razionalizzare le spese e la ricchezza, non si annoveri anche una defiscalizzazione degli utili delle imprese rivolta a far aumentare le disponibilità di capitali per l’accesso ai mercati delle materie prime o dei semilavorati e all’aumento degli stipendi dei lavoratori, con una riduzione dei costi del bene a favore di un maggior potere di acquisto dei salari. Oppure perché non si abbattano gli stipendi dei manager la cui parte collegata alla produttività dell’azienda, e rappresentata dalla partecipazione agli utili azionari, è stata una delle colpe più evidenti della sovrastima borsistica dei vari ranking sui quali si è giocata l’aspettativa di rendimento da cui ne dipendeva l’incremento stipendiale.
Se così è, credo che in fondo la crisi che si osserva non sia allora una crisi economica dovuta solo agli effetti di una minor liquidità giustificata, anche, dalla capacità di altre economie emergenti di drenare riserve valutarie per poi aggredire alla prima utile opportunità il sistema produttivo delle economie cosiddette sviluppate: quelle occidentali. Bensì è la crisi di un modello autoreferenziale di speculazione borsistica. La crisi di un mondo artificiale di massimizzare una ricchezza che rimane virtuale perché costruita su prodotti finanziari senza contenuti. Prodotti che certificavano operazioni demoltiplicative di valori nominali che si dimostravano più come forme indiscriminate di scommessa sul certificato rappresentativo, e sulla promessa di un rendimento, piuttosto che sulla certezza della ricchezza creata dal cittadino, dal piccolo risparmiatore, dalla piccola impresa che vive di mercato reale e non finanziario. È la crisi di un tentativo di porsi al di là di ogni regola ragionevole di guadagno e di investimento a cui oggi si cerca di far fare marcia indietro, trasferendo al consumatore la responsabilità di spendere quanto ha e quanto gli verrà dato per colmare i vuoti, veri, di ricchezza volatilizzatasi nei conti di pochi. Una ricchezza dissoltasi nelle nebbie cartacee di inutili certificati e prodotti finanziari privi di ogni reale contenuto se non della promessa di ciò che sarebbe stato certo solo per alcuni, per i gestori: un guadagno facile. Per gli altri, risparmiatori e imprese, l’incubo di un saldo immediato di debiti senza anima nei mutui, il fumo dei risparmi sui titoli mobiliari, i conti con il valore reale delle merci e delle materie prime.
Il primo, giustificato dal fantasma della recessione, è il ritorno all’azione dello Stato nazionale, e all’intervento degli organi internazionali di governo, nella circolazione delle liquidità di fatto assenti da molto tempo nella vita finanziaria delle borse e dei sistemi creditizi. Il secondo è caratterizzato dalla volontà dei grandi gruppi finanziari di poter rimpinguare la crisi di liquidità con iniezioni di contante provenienti dalle banche centrali, sotto forma di prestiti garantiti, o dagli stessi governi in termini di interventi a favore, magari agganciati a provvedimenti di sostegno della spesa con una ripresa della circolarità del sistema reddito-credito-spesa-reddito dimenticandosi, però, della produttività. Nel primo caso, è evidente che il fallimento della deregulation venga pagato facendo ricorso a quell’interventismo statale denigrato in passato perché corporativo ma altrettanto corporativamente richiesto oggi.
Nel secondo caso è quanto meno curioso che si utilizzino formule e forme di sostegno dei consumi dove il cittadino si trasforma in uno strumento di acquisto veicolato perché funzionale alla ripresa di un mercato di beni a cui si chiede di rimettere in moto un sistema economico finanziariamente non reale. Un mercato che ha visto lievitare stipendi di manager e partecipazione agli utili come benefit con l’attribuzione di stock option che hanno alterato alquanto i rendimenti delle società a vantaggio di alte redditività, più che di produttività, per favorire le competenze stipendiali accessorie del management. Ora, di fronte ad una simile deriva economica ci si chiede quanto vi sia di speculativamente immorale e quanto, nel ricorso al pubblico, non vi sia di strategicamente voluto per arginare aspettative di risultato disattese e ricostruire assetti di ricchezza privata grazie al contributo di tutti. Sia nel primo che nel secondo caso, insomma, è evidente che vi è un interesse alla ripresa di un modello consumistico che possa ristabilire un certo ordine nella vita economica di una comunità.
Gli interventi finalizzati a favorire i consumi e le opere, piuttosto che quelli a favore della liquidità bancaria, sembrano rispolverare principi keynesiani orientati a incrementare la spesa pubblica trasferendo allo Stato l’onere di far ripartire il volano dell’economia. Se così fosse non ci sarebbe nulla di strano. Ma la scelta di coinvolgere assetti creditizi nella logica dei consumi e nella proliferazione delle carte di credito socialmente distribuite ai consumatori con un credito al consumo aperto, anche se limitato e posto sotto forma di sostegno alla spesa, sembra sovrapporre nobili sentimenti di assistenza ai meno dotati di capacità di spesa con quelli di ricostruzione di liquidità particolarmente sentiti dal sistema bancario e del credito in generale. Se così non fosse, allora, non si comprenderebbe perché tra i tanti provvedimenti tipici dei momenti di crisi, rivolti a distribuire sacrifici e razionalizzare le spese e la ricchezza, non si annoveri anche una defiscalizzazione degli utili delle imprese rivolta a far aumentare le disponibilità di capitali per l’accesso ai mercati delle materie prime o dei semilavorati e all’aumento degli stipendi dei lavoratori, con una riduzione dei costi del bene a favore di un maggior potere di acquisto dei salari. Oppure perché non si abbattano gli stipendi dei manager la cui parte collegata alla produttività dell’azienda, e rappresentata dalla partecipazione agli utili azionari, è stata una delle colpe più evidenti della sovrastima borsistica dei vari ranking sui quali si è giocata l’aspettativa di rendimento da cui ne dipendeva l’incremento stipendiale.
Se così è, credo che in fondo la crisi che si osserva non sia allora una crisi economica dovuta solo agli effetti di una minor liquidità giustificata, anche, dalla capacità di altre economie emergenti di drenare riserve valutarie per poi aggredire alla prima utile opportunità il sistema produttivo delle economie cosiddette sviluppate: quelle occidentali. Bensì è la crisi di un modello autoreferenziale di speculazione borsistica. La crisi di un mondo artificiale di massimizzare una ricchezza che rimane virtuale perché costruita su prodotti finanziari senza contenuti. Prodotti che certificavano operazioni demoltiplicative di valori nominali che si dimostravano più come forme indiscriminate di scommessa sul certificato rappresentativo, e sulla promessa di un rendimento, piuttosto che sulla certezza della ricchezza creata dal cittadino, dal piccolo risparmiatore, dalla piccola impresa che vive di mercato reale e non finanziario. È la crisi di un tentativo di porsi al di là di ogni regola ragionevole di guadagno e di investimento a cui oggi si cerca di far fare marcia indietro, trasferendo al consumatore la responsabilità di spendere quanto ha e quanto gli verrà dato per colmare i vuoti, veri, di ricchezza volatilizzatasi nei conti di pochi. Una ricchezza dissoltasi nelle nebbie cartacee di inutili certificati e prodotti finanziari privi di ogni reale contenuto se non della promessa di ciò che sarebbe stato certo solo per alcuni, per i gestori: un guadagno facile. Per gli altri, risparmiatori e imprese, l’incubo di un saldo immediato di debiti senza anima nei mutui, il fumo dei risparmi sui titoli mobiliari, i conti con il valore reale delle merci e delle materie prime.