
È la sconfitta di una classe politica fuori tempo massimo che non vuol fare un passo indietro. Che non vuole, al di là delle dichiarazioni e dei nuovi contenitori dello stesso vino, una trasformazione dei partiti in movimenti aperti. È la sconfitta di una classe politica che rischia di far naufragare ancora una volta ogni minima possibilità di rinnovamento, di presentazione delle capacità e di ricerca di quelle energie necessarie per mutare un trend così negativo nel riformare l’economia e le istituzioni del Paese per il Paese e non per la poltrona di turno. È il “successo”, si fa per dire, di una limitata percezione di ciò che si dovrebbe fare nel medio termine per dare nuovi contenuti sia al confronto dialettico in politica sia per aprire nuovi spazi a intelligenze che devono, perché vogliono, essere artefici del proprio destino, di quello dei loro figli e del Paese.
Intelligenze, queste, dispersesi in una diaspora voluta da un qualunquismo imperante. La crisi economica è crisi degli assetti finanziari lasciati correre su prodotti artificiali, virtualmente ricondotti ad una liquidità inesistente, rivolti ad arricchire solo grazie agli interessi chi del valore nominale ne ha promosso la bontà di prodotti dolosamente artefatti. Ma la crisi è anche sconfitta di un modello politico partitocratico. Un modello consolidatosi senza orizzonti di cambiamento, sganciato dalla società civile esclusa da qualunque apporto se non entro i limiti dell’opportunismo del momento, della convenienza elettorale e non costruito sulla valorizzazione meritocratica delle capacità e delle esperienze maturate sul campo. La crisi colpisce oggi ogni cittadino perché è nello stesso tempo crisi economica, di valori, di responsabilità, di partecipazione e di condivisione “partecipata” del futuro del Paese.
È crisi di idee, di programmi e di proposte complessive che dovrebbero essere finalizzate a far crescere un’Italia ancora poco incline a permettere cambiamenti radicali nelle compagini politiche. Cambiamenti che, nella loro lentezza se non nella loro più concreta, e voluta, superficialità non assicurano un futuro di certezza, ma limitano le azioni possibili alle sole e più immediate capacità di soluzione di problemi che non possono avere solo una valenza contingente. Ciò che manca è, quindi, un modello di governance finalizzato a realizzare sinergie e provvedimenti duraturi. Economia, energia, sicurezza, giustizia, trasporti, istruzione e ricerca scientifica, sanità, non sono argomenti che possono affidarsi a soluzioni estemporanee determinate dalla ricerca della migliore risposta mediatica quasi si trattasse di slogan. Rappresentano materie che devono essere inserite in un quadro politico ed economico più ampio, che ne definisca la concreta gestione e garantisca la più longeva speranza di efficienza e efficacia ad ogni provvedimento a riguardo.
Per fare ciò, diventa indispensabile inaugurare una nuova era di impegno civile, di confronto leale e costruttivo da portare in politica e non viceversa. Un impegno che trasferisca la responsabilità del futuro alle generazioni intermedie, le uniche capaci di traghettare energie ed idee nei periodi di transizione allorquando collassano sistemi politici stantii; sistemi, questi ultimi, falsamente rappresentativi, sempre più incapaci di adeguarsi con rapidità ai mutamenti nei rapporti sociali, alle sfide economiche, alle richieste di una cittadinanza che cambia e che chiede sia maggior sicurezza nel sentirsi considerata che un futuro nel quale ognuno sia protagonista in un Paese più maturo e meno litigioso. Un aspetto, quest’ultimo, che al di là di un federalismo possibile o meno si gioca nella qualità di chi si assume l’onere, piuttosto che l’onore e i privilegi, di guidare le nostre comunità, da quelle locali a quelle sovranazionali, nell’interesse di tutti, dei nostri figli, della nostra Italia.
Intelligenze, queste, dispersesi in una diaspora voluta da un qualunquismo imperante. La crisi economica è crisi degli assetti finanziari lasciati correre su prodotti artificiali, virtualmente ricondotti ad una liquidità inesistente, rivolti ad arricchire solo grazie agli interessi chi del valore nominale ne ha promosso la bontà di prodotti dolosamente artefatti. Ma la crisi è anche sconfitta di un modello politico partitocratico. Un modello consolidatosi senza orizzonti di cambiamento, sganciato dalla società civile esclusa da qualunque apporto se non entro i limiti dell’opportunismo del momento, della convenienza elettorale e non costruito sulla valorizzazione meritocratica delle capacità e delle esperienze maturate sul campo. La crisi colpisce oggi ogni cittadino perché è nello stesso tempo crisi economica, di valori, di responsabilità, di partecipazione e di condivisione “partecipata” del futuro del Paese.
È crisi di idee, di programmi e di proposte complessive che dovrebbero essere finalizzate a far crescere un’Italia ancora poco incline a permettere cambiamenti radicali nelle compagini politiche. Cambiamenti che, nella loro lentezza se non nella loro più concreta, e voluta, superficialità non assicurano un futuro di certezza, ma limitano le azioni possibili alle sole e più immediate capacità di soluzione di problemi che non possono avere solo una valenza contingente. Ciò che manca è, quindi, un modello di governance finalizzato a realizzare sinergie e provvedimenti duraturi. Economia, energia, sicurezza, giustizia, trasporti, istruzione e ricerca scientifica, sanità, non sono argomenti che possono affidarsi a soluzioni estemporanee determinate dalla ricerca della migliore risposta mediatica quasi si trattasse di slogan. Rappresentano materie che devono essere inserite in un quadro politico ed economico più ampio, che ne definisca la concreta gestione e garantisca la più longeva speranza di efficienza e efficacia ad ogni provvedimento a riguardo.
Per fare ciò, diventa indispensabile inaugurare una nuova era di impegno civile, di confronto leale e costruttivo da portare in politica e non viceversa. Un impegno che trasferisca la responsabilità del futuro alle generazioni intermedie, le uniche capaci di traghettare energie ed idee nei periodi di transizione allorquando collassano sistemi politici stantii; sistemi, questi ultimi, falsamente rappresentativi, sempre più incapaci di adeguarsi con rapidità ai mutamenti nei rapporti sociali, alle sfide economiche, alle richieste di una cittadinanza che cambia e che chiede sia maggior sicurezza nel sentirsi considerata che un futuro nel quale ognuno sia protagonista in un Paese più maturo e meno litigioso. Un aspetto, quest’ultimo, che al di là di un federalismo possibile o meno si gioca nella qualità di chi si assume l’onere, piuttosto che l’onore e i privilegi, di guidare le nostre comunità, da quelle locali a quelle sovranazionali, nell’interesse di tutti, dei nostri figli, della nostra Italia.