
A fare da contraltare ai keynesiani intervengono i cosiddetti monetaristi. Per tale corrente le politiche keynesiane producono effetti solo nel medio/lungo termine, quindi ben al di là delle utilità delle stesse nelle congiunture di crisi, dimostrandosi non idonee a calmierare gli effetti nel tempo di un aumento della spesa pubblica, riducendone le possibilità di contenimento e dilatando l’indebitamento e gli effetti dell’indebitamento: i tassi di interesse. Per i monetaristi, quindi, non vi sarebbe rimedio che garantire l’equilibrio economico solo con manovre monetarie, misurabili, prescindendo dal ricorso all’indebitamento e adeguando al momento spese a disponibilità. Ma anche in questo caso il limite della teoria è ben presente. Una politica economica fondata solo sull’approccio monetarista non permetterebbe di condurre alcun progetto a medio-lungo termine dal momento che nessun investimento potrebbe essere adeguatamente finanziato in un’ottica di risorse limitate. Ora, non essendo l’economia una scienza esatta come quelle fisiche, ma una disciplina che si fonda sull’esame dei comportamenti, delle propensioni al consumo e al risparmio, sulla formazione dei redditi e sulle capacità di spesa, la verità, come sempre, sta nel mezzo. Ovvero nella capacità di coniugare, mutatis mutando, caratteristiche dell’una con quelle dell’altra teoria cercando di adeguare politiche ed azioni, gestendo il momento e non diventando vittime dell’iniziativa altrui.
Ciò che succede oggi all’Italia non è altro, in effetti, che il risultato di una politica economica che si è accontentata di guardare alla finestra, di non esprimere nessuna guida o indirizzo alle imprese, limitando il suo piccolo orizzonte ad una sola prospettiva di fiscalità mirata a drenare risorse utili ma non all’investimento. D’altra parte, lo stesso ricorso all’indebitamento dei decenni passati non si è espresso in termini di spese di investimento, ma si è risolto nello sperpero di quanto incassato, con le politiche fiscali e con il ricorso all’emissione dei titoli di Stato, in spese di mantenimento. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti. Una politica immatura, dal punto di vista economico tipica da artifici contabili, un Paese a crescita zero, imprenditorialmente ingessato, fortemente indebitato. Un Paese che non offre garanzie di solvibilità nel medio termine attraverso politiche di crescita prim’ancora che di mera liquidità, che diventa facile preda di attacchi speculativi. Quanto accade in questi giorni, in queste ore, non è, e non doveva essere, una novità.
L’intenzione di attaccare l’Italia era già nell’aria. Alitalia, Parmalat, le cordate nell’alimentare che hanno visto -e vedranno ancora mentre i politici italiani si inebriano di una dimensione onirica della propria vita- passare molti brand italiani sotto l’egida di un capitale d’Oltralpe più capace non sono che alcuni aspetti a cui mancava la conquista finanziaria giocata sul mercato di Piazza Affari. E come tutte le operazioni che mirano ad un certo successo, si aspetta il momento migliore per condurle. Quel momento in cui l’avversario è politicamente debole, incerto, ancor meglio se politicamente “assente”. Ma attacchi nonostante, ci salveremo ancora una volta e solo per un motivo. Perché l’Italia è, e resterà, nell’Unione Europea e nell’economia mondiale uno spazio di consumo. Solo che a fare i prezzi, a decidere cosa dovremmo consumare e chi dovrà produrre i beni e offrire i servizi non lo decideremo più da italiani.