
E’ vero, non c’è nulla da dire, il nostro premier eurocrate, così come scritto su Panorama di questa settimana, è stato abbandonato dai suoi stessi amici europei. Una verità semplice come semplicemente sarebbe stato potersi illudere che davanti al dio Euro Germania e Francia potessero mettere in gioco i propri conti domestici per favorire un’Italia poco virtuosa da decenni e non credibile nelle sue espressioni politiche, tecniche o meno tecniche che fossero e che siano. In economia e, in particolare, in finanza non si guarda in faccia a nessuno. L’Italia per bontà del suo Presidente della Repubblica -che ha disarcionato con eleganza un esecutivo con molti limiti ma rappresentativo suo malgrado di un corpo elettorale- si trova in balia di un governo fantasma.
Ministri ombra giunti ai vertici delle varie amministrazioni grazie alla politica di ieri, affinati nelle dinamiche di palazzo per essere oggi testimoni senza vigore di logiche non nazionali a cui ci asserviamo senza colpo ferire, mettendo in discussione conquiste sociali e diritti senza ritenersi -e costringendo tutti noi a non sentirci a nostra volta- parte di una nazione che ormai vive come un pesce in scarsità d’acqua e poco ossigeno.
Ci siamo illusi che fosse sufficiente un curriculum vitae altisonante per accreditare personalità autoreferenziali nel loro modo di essere, di vivere un modo di essere distaccato non solo dall’economia reale del Paese, quella che produce e quella dei carrelli della spesa, ma anche dalla vita politica vista come un appannaggio da eletti e non come una conquista o come un dovere superiore a qualunque interesse personale. La stessa via bocconiana al risanamento non sfonda l’obiettivo di una reale capacità di riorganizzazione dello Stato e della finanza pubblica interpretata in una manovra che è estremamente semplice e semplificata: tasse, rincari, abbattimento di ciò che resta delle spese sociali in nome di una spending review di maniera. Prodotti o meno dell’unica vera fucina italiana, milanese in verità, di economisti imperituri che insegnano e disegnano grafici senza fare la spesa, senza buste e senza mutui, per il governo lo spread è diventato un termometro necessario sul quale costruire politiche senza mettere in conto la natura speculativa dell’indice, la ragione o la giustificazione del proprio essere in virtù della necessità di gestire le bizzarre evoluzioni di una variabile costruita per difendere e avvalorare una volontà speculativa.
Ma spread o meno, l’Italia oggi è debole, e con essa la politica del governo, per due motivi. Il primo il saldo politico di una democrazia amministrata, bloccata, ingessata su posizioni delegittimanti la stessa essenza costituzionale dal momento che un’emergenza, per quanto essa sia tale, è da sola sufficiente a sospendere il carattere parlamentare della nostra repubblica a favore di un direttorio d’antan. Certo è facile per il governo in crisi di consensi, non necessari in verità, riconoscere i "meriti del predecessore”, ed è facile distribuire meriti, veri o presunti che siano, al precedente esecutivo per riforme avvenute o mancate per giustificare le scelte impopolari decise e messe di fronte all’incombere dello spettro dei grillini… però, nonostante ciò rimane difficile …fare la spesa. E, così, in secondo luogo, ecco il problema: l’euro. Non vi sono e non vi possono essere ragioni per decidere di uscire dallo spazio-euro.
L’Italia, in un sistema internazionalizzato caratterizzato da mercati molto ampi, interdipendenti, aggregati e aggreganti, e distanti spesso dalla nostra realtà geopolitica, non avrebbe alcuna possibilità di confrontarsi da sola sui mercati europei e mondiali, né con i Paesi partner che rimarrebbero nel sistema euro né con il resto del mondo. Potrebbe inizialmente svalutare la lira per favorire le esportazioni ma dovrebbe produrre beni e servizi e l’Italia ha invece deindustrializzato producendo molto poco in Patria e delocalizzato molto in Paesi a noi oggi competitivi. Ciò significa che l’uscita dallo spazio euro non sarebbe una soluzione, ma l’anticamera del baratro. L’Italia sino ad oggi è sopravvissuta nel sistema euro perché è fondamentalmente uno spazio di consumo per chi ha investito e collocato prodotti, produzioni e capitali in Italia. Siamo rimasti e resteremo in Europa, nel sistema euro, se non cambiano le dinamiche, soprattutto perché siamo più di sessanta milioni di consumatori. Un numero ragguardevole, al di là delle singole capacità di spesa, ad esempio per le società e i capitali francesi che detengono il monopolio della grande distribuzione e di buona parte di ciò che resta di molte attività industriali quanto di società e capitali d’oltralpe che già si muovono per colmare i vuoti lasciati dall’ultima deindustrializzazione delocalizzata consumatasi nel Bel Paese: La Fiat.
Le dinamiche a cui l’Italia va incontro, e che sino ad oggi l’hanno protetta, in altre parole, sono le stesse dello storico rapporto tra Nord e Sud del Paese. Un Nord sviluppato e produttivo, finanziariamente forte sino a qualche anno fa per il quale il Sud era un mercato di riserva, uno spazio di consumo dove indirizzare in tempi di recessione le eccedenze di produzione favorendo un potere di acquisto su redditi assistiti e non maturati su attività produttive localizzate. Se questo è allora, vi è solo una diagnosi da fare sull’origine del male italiano di oggi. Ed è data dal fatto che l’errore, al di là del dissesto a cui tutti e tanti hanno contribuito negli ultimi decenni, sono e restano sostanzialmente due. Il primo, la “fretta” di entrare nel sistema euro senza avvalersi sin dai primi anni della clausola opting-out per decidere man mano con quali conti reali e con che capacità produttiva e di reddito reale, ovvero con che livelli del Prodotto Nazionale Lordo, accedere al sistema euro. Il secondo, con quali conti “reali” e su che ammontare di indebitamento pubblico fissare il vero controvalore, a noi vantaggioso, da attribuire alla nuova moneta comune rispetto alla lira prescindendo dalla soglia fissata dal trattato. Se questi sono i termini del problema e le cause del nostro tracollo la soluzione è estremamente semplice.
Oggi non si tratta di uscire dall’Euro, ma di verificare le possibilità di rideterminare il controvalore lira-euro su livelli di indebitamento pubblico accettabili. Se così fosse potremmo allora evitare di dare luogo ad artifici contabili e puntare su una manovra per obiettivo. Chiedere ad ogni cittadino di contribuire una tantum con una tassa di solidarietà finalizzata ad “acquistare” in tutto o in parte il “nostro” debito e poi riconfigurare, in termini reali ed equi, il rapporto lira-euro. Una scelta semplice che qualunque casalinga italiana, confrontandosi con altre più virtuose e sagaci casalinghe francesi, tedesche, olandesi o belghe, comprenderebbe senza aver necessità di un percorso di laurea d’élite da seguire o di un curriculum vitae da predestinata consumatrice.
Ci siamo illusi che fosse sufficiente un curriculum vitae altisonante per accreditare personalità autoreferenziali nel loro modo di essere, di vivere un modo di essere distaccato non solo dall’economia reale del Paese, quella che produce e quella dei carrelli della spesa, ma anche dalla vita politica vista come un appannaggio da eletti e non come una conquista o come un dovere superiore a qualunque interesse personale. La stessa via bocconiana al risanamento non sfonda l’obiettivo di una reale capacità di riorganizzazione dello Stato e della finanza pubblica interpretata in una manovra che è estremamente semplice e semplificata: tasse, rincari, abbattimento di ciò che resta delle spese sociali in nome di una spending review di maniera. Prodotti o meno dell’unica vera fucina italiana, milanese in verità, di economisti imperituri che insegnano e disegnano grafici senza fare la spesa, senza buste e senza mutui, per il governo lo spread è diventato un termometro necessario sul quale costruire politiche senza mettere in conto la natura speculativa dell’indice, la ragione o la giustificazione del proprio essere in virtù della necessità di gestire le bizzarre evoluzioni di una variabile costruita per difendere e avvalorare una volontà speculativa.
Ma spread o meno, l’Italia oggi è debole, e con essa la politica del governo, per due motivi. Il primo il saldo politico di una democrazia amministrata, bloccata, ingessata su posizioni delegittimanti la stessa essenza costituzionale dal momento che un’emergenza, per quanto essa sia tale, è da sola sufficiente a sospendere il carattere parlamentare della nostra repubblica a favore di un direttorio d’antan. Certo è facile per il governo in crisi di consensi, non necessari in verità, riconoscere i "meriti del predecessore”, ed è facile distribuire meriti, veri o presunti che siano, al precedente esecutivo per riforme avvenute o mancate per giustificare le scelte impopolari decise e messe di fronte all’incombere dello spettro dei grillini… però, nonostante ciò rimane difficile …fare la spesa. E, così, in secondo luogo, ecco il problema: l’euro. Non vi sono e non vi possono essere ragioni per decidere di uscire dallo spazio-euro.
L’Italia, in un sistema internazionalizzato caratterizzato da mercati molto ampi, interdipendenti, aggregati e aggreganti, e distanti spesso dalla nostra realtà geopolitica, non avrebbe alcuna possibilità di confrontarsi da sola sui mercati europei e mondiali, né con i Paesi partner che rimarrebbero nel sistema euro né con il resto del mondo. Potrebbe inizialmente svalutare la lira per favorire le esportazioni ma dovrebbe produrre beni e servizi e l’Italia ha invece deindustrializzato producendo molto poco in Patria e delocalizzato molto in Paesi a noi oggi competitivi. Ciò significa che l’uscita dallo spazio euro non sarebbe una soluzione, ma l’anticamera del baratro. L’Italia sino ad oggi è sopravvissuta nel sistema euro perché è fondamentalmente uno spazio di consumo per chi ha investito e collocato prodotti, produzioni e capitali in Italia. Siamo rimasti e resteremo in Europa, nel sistema euro, se non cambiano le dinamiche, soprattutto perché siamo più di sessanta milioni di consumatori. Un numero ragguardevole, al di là delle singole capacità di spesa, ad esempio per le società e i capitali francesi che detengono il monopolio della grande distribuzione e di buona parte di ciò che resta di molte attività industriali quanto di società e capitali d’oltralpe che già si muovono per colmare i vuoti lasciati dall’ultima deindustrializzazione delocalizzata consumatasi nel Bel Paese: La Fiat.
Le dinamiche a cui l’Italia va incontro, e che sino ad oggi l’hanno protetta, in altre parole, sono le stesse dello storico rapporto tra Nord e Sud del Paese. Un Nord sviluppato e produttivo, finanziariamente forte sino a qualche anno fa per il quale il Sud era un mercato di riserva, uno spazio di consumo dove indirizzare in tempi di recessione le eccedenze di produzione favorendo un potere di acquisto su redditi assistiti e non maturati su attività produttive localizzate. Se questo è allora, vi è solo una diagnosi da fare sull’origine del male italiano di oggi. Ed è data dal fatto che l’errore, al di là del dissesto a cui tutti e tanti hanno contribuito negli ultimi decenni, sono e restano sostanzialmente due. Il primo, la “fretta” di entrare nel sistema euro senza avvalersi sin dai primi anni della clausola opting-out per decidere man mano con quali conti reali e con che capacità produttiva e di reddito reale, ovvero con che livelli del Prodotto Nazionale Lordo, accedere al sistema euro. Il secondo, con quali conti “reali” e su che ammontare di indebitamento pubblico fissare il vero controvalore, a noi vantaggioso, da attribuire alla nuova moneta comune rispetto alla lira prescindendo dalla soglia fissata dal trattato. Se questi sono i termini del problema e le cause del nostro tracollo la soluzione è estremamente semplice.
Oggi non si tratta di uscire dall’Euro, ma di verificare le possibilità di rideterminare il controvalore lira-euro su livelli di indebitamento pubblico accettabili. Se così fosse potremmo allora evitare di dare luogo ad artifici contabili e puntare su una manovra per obiettivo. Chiedere ad ogni cittadino di contribuire una tantum con una tassa di solidarietà finalizzata ad “acquistare” in tutto o in parte il “nostro” debito e poi riconfigurare, in termini reali ed equi, il rapporto lira-euro. Una scelta semplice che qualunque casalinga italiana, confrontandosi con altre più virtuose e sagaci casalinghe francesi, tedesche, olandesi o belghe, comprenderebbe senza aver necessità di un percorso di laurea d’élite da seguire o di un curriculum vitae da predestinata consumatrice.