
Non si tratta di ragionare in termini di conservazione o stimolo progressista. Si tratta, al contrario, di valutare quanto l’Italia sia pronta ad affrontare un cambiamento. Per fare questo, in effetti, ci si dovrebbe chiedere quale mutamento è intervenuto oggi nella classe politica del Paese. Quale nuova forza ideale e quali nuove forze individuali sono emerse per poter creder che il futuro sia patrimonio del nuovo e quanto invece sia ancora fermo ad un passato recente.
Orbene, se la novità è nel ricercare una diversificazione della classe politica emergente certamente questo non è il risultato che ci si poteva aspettare. Tranne qualche scelta promozionale e di puro marketing elettorale, è evidente che la nuova legge elettorale - con l’assenza delle preferenze, e la decisione della formazione delle liste affidata alle segreterie di partito - rende giustizia da se ad un dubbio sul nuovo. Nulla cambia. nè sulle ragioni della politica del Paese ne negli uomini. Onorevoli uscenti da legislature passate e ancora riconfermati, sopravvivenza di leadership nazionali e spostamenti di colore a livello locale per non perdere l’appannaggio politico di continuare a vivere di politica piuttosto che a fare politica, restano i punti fermi di un cambiamento che non si dimostra tale nelle forme e nella sostanza.
Un cambiamento che è ostaggio di una logica trasversale ancorata al mantenimento del potere. Non vi sono programmi di riorganizzazione dell’assetto del Paese se non una devolution in sospeso ed una politica locale sempre più autonomamente autoreferenziata. Non vi è una politica estera da peso determinante ma un trascinarsi a ruota sulle capacità altrui. Non vi sono obiettivi e ambizioni di crescita economica se non decidere ancora una volta sul come colmare vuoti di finanza pubblica sempre più finanziati senza rendimento.
Il nuovo è già passato. Ed è passato perchè la classe politica è ancorata a espressioni personalistiche di sempre nel gioco dell’uscente che entra da una porta ma che, se non possibile, rientra anche dalla finestra dell’urna.
Orbene, se la novità è nel ricercare una diversificazione della classe politica emergente certamente questo non è il risultato che ci si poteva aspettare. Tranne qualche scelta promozionale e di puro marketing elettorale, è evidente che la nuova legge elettorale - con l’assenza delle preferenze, e la decisione della formazione delle liste affidata alle segreterie di partito - rende giustizia da se ad un dubbio sul nuovo. Nulla cambia. nè sulle ragioni della politica del Paese ne negli uomini. Onorevoli uscenti da legislature passate e ancora riconfermati, sopravvivenza di leadership nazionali e spostamenti di colore a livello locale per non perdere l’appannaggio politico di continuare a vivere di politica piuttosto che a fare politica, restano i punti fermi di un cambiamento che non si dimostra tale nelle forme e nella sostanza.
Un cambiamento che è ostaggio di una logica trasversale ancorata al mantenimento del potere. Non vi sono programmi di riorganizzazione dell’assetto del Paese se non una devolution in sospeso ed una politica locale sempre più autonomamente autoreferenziata. Non vi è una politica estera da peso determinante ma un trascinarsi a ruota sulle capacità altrui. Non vi sono obiettivi e ambizioni di crescita economica se non decidere ancora una volta sul come colmare vuoti di finanza pubblica sempre più finanziati senza rendimento.
Il nuovo è già passato. Ed è passato perchè la classe politica è ancorata a espressioni personalistiche di sempre nel gioco dell’uscente che entra da una porta ma che, se non possibile, rientra anche dalla finestra dell’urna.