
Il vero problema non è, quindi, se si è pagato il riscatto o meno. Questo, non è rilevante per il risultato comunque ottenuto: la salvezza di due vite umane. E non è rilevante nemmeno polemizzare su eventuali opportunità politiche di linee morbide o meno tolleranti con un terrorismo criminale che mischia politica e violenza senza soluzione di continuità, tenendo in ostaggio non solo i civili stranieri ma con essi le forze anglo-americane bloccate in un incredibile pantano tattico e la popolazione irachena. Ciò che è paradossale in questa vicenda è la continua strumentalità che sia per i pacifisti sia per il governo ha assunto la vicenda, perdendo di vista il vero aspetto del dramma iracheno: un dramma umanitario senza soluzioni immediate, né politiche né militari. La recrudescenza delle azioni terroristiche e l’incapacità di gestire il controllo di un territorio dimostrano quanto sia deficitario il saldo di sicurezza ricercato con una campagna militare condotta con molta superficialità, senza una pianificazione concreta e completa delle attività da svolgere sul terreno una volta conquistato il cuore politico dell’Iraq e deposto Saddam.
Fra il perché uno Stato conduce una missione dichiaratamente umanitaria, decisa nella convinzione che la guerra fosse finita in una rapida vittoria estiva e altre espressioni della comunità nazionale che conducono un’azione parallela, parimenti solidaristica, ma in maniera autonoma, alternativa, quasi antagonista al modello americano di guerra umanitaria. Tutto questo crea confusione. Crea confusione politica e crea confusione fra chi cerca di comprendere il significato dell’una e dell’altra missione. Ma, soprattutto, crea confusione in un ambiente operativo in cui l’espressione nazionale - se c’è - deve essere il risultato di una comune volontà politica di sintesi e muoversi secondo piani e obiettivi concordati e sostenibili a vantaggio di chi ha bisogno, nella migliore sicurezza possibile per gli operatori, civili o militari che siano.