Il peace-keeping italiano si infrange dietro le solite dinamiche di provincia. Come titolava il Corriere della Sera del 1 febbraio 2004, “[…] In Iraq vi era tensione fra carabinieri ed esercito. Mesi di malumore. L'accusa dell'Arma: esclusi da una cerimonia. I soldati: solo un passaggio di consegne. Un malumore vecchio di mesi, che covava sotto la cenere. Una contesa a volte aspra sulla «visibilità» del proprio lavoro. Il tutto vissuto in una situazione di tensione continua, di fatica, di pericolo incombente. Sono gli ingredienti perfetti per costruire uno scontro clamoroso, di quelli che fanno scintille. E così è stato […]”. Una polemica ai margini della gestione della visita dell’allora Presidente della Camera dei Deputati Pier Ferdinando Casini.

La crisi irachena, in realtà non è solo importante per le valutazioni di ordine giuridico circa la legittimità o meno dell’intervento, o sulla verifica strategica dei rapporti di forza nel mondo. Per noi italiani, in particolare, rappresenta, vista la scelta di un impegno diretto, il timing più interessante ed importante per verificare quale autonomia operativa è possibile esprimere, quale livello d’integrabilità dei reparti, quale condotta nelle attività fuori-area, al di fuori degli schemi tradizionali entro i quali siamo stati abituati a svolgere le operazioni sino a ieri. Nei Balcani come in altre aree di crisi. Operazioni decise e condotte in ambito internazionale, all’interno di aggregazioni sopranazionali ben definite: Nazioni Unite o Alleanza Atlantica che fossero.
In un’ottica, quindi, di possibile impiego fuori-area, la definizione delle missioni dovrebbe rappresentare il punto centrale di qualunque pianificazione militare dopo la scelta politica che ne dispone l’intervento. Capacità di proiezione, autonomia logistica, condivisione degli obiettivi diventano indispensabili per valutare sino a che punto la missione può essere condotta e quali risultati potranno essere efficacemente conseguiti, concretamente conseguiti, con quali strumenti e con quali costi, anche di vite umane. In tutto questo si è inserita da qualche anno a questa parte la scelta di rimodulare lo strumento militare, non solo in termini di forze ed organizzazione, ma di compiti in chiave internazionale, ovvero di partecipazione alle missioni di pace o, almeno, così presentate.
Il nobile approccio, nato dalla rideterminazione del concetto strategico atlantico e favorito dalle crisi balcaniche, sottende in verità la volontà di presentare un’immagine nuova delle Forze Armate laddove la fine della missione precedente, ovvero il contenimento e il contrasto alla minaccia unidirezionale proveniente da Est, ha imposto una nuova dimensione dell’impegno militare di fronte al crollo di un ordine garantito e ad una crisi diffusasi all’interno delle etnie compresse sino a ieri nell’ordine bipolare. Inoltre, la rideterminazione dei ruoli delle alleanze militari e delle organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, o regionali, quali l’Alleanza Atlantica, l’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa, e poi l’Unione europea, ha evidenziato la necessità di ricomporre le relazioni internazionali secondo un ordine democratico capace di restituire una sostenibile e condivisa pacifica convivenza fra gli Stati attraverso la stabilità interna. Non che non fosse una necessità anche in passato tutto questo. Ma il vuoto di potere creatosi soprattutto negli ultimi anni ha riproposto antiche fratture e le missioni di peacekeeping si sono rivelate la nuova frontiera delle Forze Armate.
Un’occasione, forse, per superare una crisi di identità. Un nuovo orientamento dei compiti che potesse giustificare un salto di qualità essenziale, ma difficilmente spendibile in altri periodi, per delle Forze Armate che dalla coscrizione obbligatoria si avviano verso la professionalizzazione esclusiva delle risorse. Un motivo per accreditarsi verso un’opinione pubblica non sempre molto prossima alle ragioni militari della politica e non generosa verso i cittadini con le stellette. E, in tutto questo, si sono inseriti gli sforzi diplomatici rivolti a rendere più aderenti le organizzazioni politiche nella gestione delle crisi e la necessità di esprimere modelli di efficienza militare tali da poter soddisfare le missioni future. Così, il concetto di sicurezza nazionale si è spostato al di fuori delle frontiere e le emergenze di crisi, così come il crisis management, hanno attribuito un ruolo da protagonista alle Forze Armate, spingendole verso il confronto con dimensioni politiche internazionali e internazionalmente locali.
Una proiezione che difficilmente può interagire efficacemente al di là della contingente cooperazione civile e militare se la direzione politica delle missioni non ne individua e ne dichiari gli obiettivi, se non li esprime all’interno di un quadro giuridico e politico unitario e ben definito in termini di responsabilità: politica, strategica e tattica. Alleanza Atlantica, Politica europea di sicurezza e difesa (Pesd), Identità europea di sicurezza e di difesa (Iesd) ed altre istituzioni o formulazioni politiche possono essere degli efficaci contenitori delle abilità militari di ogni stato partner o delle intenzioni. Ma pur essendo abilità ed intenzioni esprimibili all’interno delle singole istituzioni, la partecipazione e la guida di coalizione è l’unica che consente la massima utilizzabilità dello strumento militare ed il massimo risultato conseguibile, in una proiezione internazionale in un’area di crisi che può raggiungere la sua migliore espressione solo all’interno dei modelli proposti.
Solo in un sistema di certezze di comando, controllo e coordinamento degli sforzi. Solo in un sistema di coalizione costruita non sulla contingenza ma su collaudate forme di integrazione delle forze. Di interoperabilità sistematica. Di condivisione politica degli obiettivi che devono essere certi, materializzabili e dichiarati. Modelli che permettano, e prevedano, un’interazione fra livello strategico e livello politico per evitare proprio l’insuccesso tattico. Modelli dove la concezione interforze sia il risultato di un’unica volontà d’azione. In un simile scenario, le missioni di peace-keeping non possono esaurire se stesse soltanto nel concepire l’impiego delle Forze Armate esclusivamente in missioni umanitarie. Mischiare un umanitarismo di maniera con l’impiego della forza rischia di mutare i termini di un intervento o di indebolire le capacità militari, ponendo a rischio la stessa missione e la vita del personale incapace di valutare l’atteggiamento dell’altro e di dimensionare la propria azione, e reazione, alle esigenze operative contingenti.
In tutto questo, la percezione che si ha delle missioni sganciate da un livello collaudato, integrato, strategicamente integrato, di comando e controllo, oltre che di coordinamento, è che esse rischino il default nel raggiungimento degli obiettivi e che i singoli operatori possano cadere nel dubbio di non aver compreso le ragioni dell’intervento o del reale teatro operativo nel quale sono stati proiettati. La crisi di leadership, in realtà, non deve essere un rischio da correre e, se si verifica, non può vincolare le capacità militari soltanto ad un’approssimativa stabilizzazione, senza un’autorità di riferimento che possa permettere l’uso ottimale delle risorse, vanificandone gli sforzi.
Pertanto, se le Forze Armate, tutte, Carabinieri compresi, ritengono di dover evolvere dalla dimensione prevalentemente statica della difesa e dell’intervento a tutela della sovranità del Paese garantendo il sostegno dinamico dell’azione della comunità internazionale, ciò deve essere ben individuato negli obiettivi conseguibili, nei termini entro i quali si possono conseguire, indicando quali azioni dovranno essere condotte sul terreno, per conto di chi, attraverso quali norme applicabili. Perché il limite che si osserva nella condotta delle operazioni di supporto alla pace (PSOs) è rappresentato dall’aver generalizzato i termini dell’intervento attraverso l’uso di una categoria al cui interno azioni di peace-keeping si confondono con operazioni di peace-enforcing e di peace-building senza una distinzione netta e razionale permessa dal considerare l’unico fattore determinante nel decidere come conseguire gli obiettivi: la quantità e la qualità della forza esprimibile.
Ora, è evidente che in Iraq ci si trovi di fronte ad uno scenario non-Nato, non-Osce, tantomeno Onu. Non solo. Le procedure adottate non sono né Nato, né Onu, tantomeno Ue, anche perché, di quest’ultima, ancora oggi non ve ne sono praticabili nell’immediato. Inoltre in Iraq non si gioca una partita di peace-keeping ma una partita di vera e propria parte di peace-enforcing. Ovvero di imposizione della pace, dove nessuna possibilità di costruzione (peace-building) di un ordine immediato, ed espresso da un consenso della popolazione, riesce ancora oggi a trovare una propria dimensione superando una pericolosa instabilità interna per mezzo di un’autorità a cui far rispondere l’impiego delle stesse truppe internazionali, militari e di polizia. Per questo, la sovrapposizione delle catene di comando diventa un rischio possibile e immediato.
La crisi di qualche giorno fa tra Carabinieri ed Esercito non è, né può essere letta soltanto nella sua vena polemica o quale elegante disappunto dell’una o dell’altra Forza Armata. Non avrebbe un senso, sarebbe riduttivo e non insegnerebbe nulla per il futuro. Il vero problema è nel confronto fra due approcci diversi alla missione che, di per sé, nasce come un progetto di stabilizzazione e di ricostruzione di un’area limitata in verità e in una situazione confusa di non conflitto. Così, il risultato è che sia il soldato che il carabiniere si immedesimano nel ruolo del peacekeeper in un ambito di attività di enforcing, risolvendosi il tutto in un limite per l’azione di entrambi: del soldato-combattente e del carabiniere soldato e poliziotto. O, se si vuole, delle Forze Armate in senso classico, e di una Forza Armata con compiti e profili completamente diversi per capacità operative e per missione.
Forze Armate che, entrambe orientate ad assolvere una missione, attribuiscono all’aspetto umanitario dei loro compiti l’unica possibilità di raggiungere una stabilizzazione che non riesce a decollare dal basso. Una visione però che seppur condivisibile per le ovvie finalità, non potrà reggere di fronte alle concrete difficoltà nel riuscire ad individuare gli obiettivi limitati e immediati che sul terreno ogni singola componente si attribuisce. Tutto ciò di fronte ad una progettualità strategica complessivamente non chiarita, dimenticando che la pace è anche la conseguenza di una guerra e che, pertanto, imposto o condiviso, l’ordine possibile è e resta anch’esso il risultato di un conflitto, della sua condotta, delle finalità che si prefigge chi gestirà il dopoguerra. Per questo, tornando al caso italiano, ciò che si è osservato è solo una sovrapposizione e competizione, in buona fede e non ci sono dubbi, dell’attività di comando in una realtà non internazionalizzata né giuridicamente né militarmente, dove i livelli politici, strategici e tattici si sovrappongono fra di essi all’interno della singola nazionalità e fra le nazionalità in un sistema di piani simmetrici e paralleli. Dove la Gran Bretagna ricorda il protettorato sulla sua provincia di Bassora e gli Stati Uniti ridefiniscono la loro strategia in Medio Oriente. Dove l’obiettivo ultimo stenta a definirsi almeno per gli altri della coalizione.
Per questo, insomma, non ci siamo meravigliati più di tanto se, durante la visita di un’alta autorità politica italiana, sul terreno qualcuno litiga. Non è stata colpa né dei Carabinieri che fanno i soldati né dei soldati che vorrebbero fare i carabinieri. È stata solo una semplice questione di procedure, compiti e comando. Peccato, però, che Clausewitz sia così precocemente scomparso dai banchi degli istituti militari.