
Come scrissi in un altro contributo in una pari, triste, occasione (Trappola Afghanistan) "il successo in Afghanistan per le forze della coalizione risiede, che lo si accetti o meno, nella volontà di rendere man mano definitivo un processo di transizione ammesso che si riconosca a ciò un obiettivo strategico da perseguire. Un obiettivo fondamentale per evitare una provvisorietà dilatata nel tempo dell’ingaggio delle proprie forze come in Vietnam.” Ora, se questo assunto si dimostra valido nella sua triste e crudele manifestazione, gli interrogativi fondamentali a cui dover rispondere restano, ancora una volta, sempre gli stessi:
1. Se una missione fuori area serva o meno l’interesse nazionale?
2. Quale ruolo debba assumere il soldato o debba assolvere in scenari apertamente da guerra civile? 3. Quale legittimità dovrà avere per giustificarne l’impiego?
4. Qual è il rapporto con le popolazioni afghane, diverse tra di loro, vulnerabili nei sentimenti e nelle ragioni quotidiane dal ricatto del bisogno?
5. A quali condizionamenti dovrebbe sottostare l’uso della forza da parte del soldato?
Troppe domande per un solo soldato ma poche domande se ciò riguarda l’impiego della forza militare nazionale fuori area per motivazioni politiche a volte poco incisive nel dichiarare le loro finalità.
La verità, ancora una volta è che in Italia tocca ai politici dare le risposte adeguate ammesso che questi abbiano un minimo di “informazione” sull’argomento, dal momento che “non sono certamente i soldati ad aver scelto di attribuire una dimensione “umanitaria” o guerriera alla missione, ma i rispettivi governi”. Ancora una volta ripropongo la riflessione di Clausewitz, uno sconosciuto generale austriaco che certamente non è di casa nei corridoi della Camera o del Senato o in qualche ministero. Ossia, che dovremmo ricordarci che nessuno che ragioni dovrebbe fare una guerra, o decidere o far condurre un’operazione militare, se non sa perché e come farla.
Ebbene, proprio questa precarietà nel definire ancora una volta la cornice di una missione e gli obiettivi concreti -misurabili- che si intendono perseguire è più che sufficiente per comprometterne il successo. Una guerra senza vittoria e senza sconfitta agevola la parte più debole. Per la guerriglia prolungare la guerra non è un problema, mentre una grande potenza che non vince né perde entro un tempo ragionevole può considerarsi sconfitta. Come scritto in passato, e volendo suggerire ai nostri politici che esprimono solidarietà, la sindrome del Vietnam è proprio questo.
Il successo di un’operazione militare lo si decide se si è capaci di vincere in tempi brevissimi e con poche perdite. Una regola fondamentale che non prevede mezze misure a patto che non si vogliano assumere i rischi di una presenza dilatata nel tempo sul terreno avversario. Questa regola è quel postulato che si pone a premessa di ogni pianificazione strategica concreta, condivisa, dove l’obiettivo è riconosciuto e raggiungibile. Una pianificazione che non preveda solo i costi del carburante, del vitto, delle manutenzioni dei mezzi o delle indennità di missione, ma che abbia l’onestà di valutare anche, per deciderne la sostenibilità politica e la proporzionalità con l’obiettivo prefissato, il costo delle vite umane. Un prezzo che non può essere dissimulato da un convincimento esorcizzante di fatalismo latineggiante, dimenticandone l’incombente realtà che questo è il rischio maggiore che si corre quando si decide di impiegare le forme armate in teatri operativi.