
Tutti si interrogano in queste ore, e lo faranno ancora per qualche tempo, sulle modalità dell’incidente, sulla comunicazione e su un coordinamento sul terreno che forse non ha funzionato o, quanto meno, si è rivelato non adeguato a coprire in termini di totale sicurezza una missione certamente difficile, condotta da pochi uomini in un ambiente ostile e tutt’altro che stabilizzato. Ma tutto questo, al di là delle giustificazioni, si spera plausibili, da parte statunitense non muta l’ordine degli eventi: e cioè che un italiano è morto per salvare un proprio connazionale.
In questo c’è poco spazio per le retoriche di maniera e ancora meno spazio per discutere sulla lealtà degli apparati dello Stato, che dimostrano di essere al servizio di un Paese che a volte non riconoscono nel momento in cui l’identità di una nazione, per la quale si può anche morire, viene monopolizzata e manipolata per ragioni politiche o discriminata per altrettante opportunità di parte. In Medio Oriente l’Italia gioca la partita della qualità delle proprie risorse. Qui non si tratta di valutare se l’intervento in Iraq sia politicamente giusto. Si tratta di difendere chi, al di là delle scelte, rappresenta il Paese. Non tocca ai militari valutare quali siano le ragioni di una missione. Ma è un dovere dei politici, che ne hanno e devono assumersi la responsabilità, di spiegarle e dimostrarne la validità secondo una valutazione di un interesse nazionale che deve essere evidente.
Oggi non si tratta di essere antiamericani. Negli Stati Uniti il dialogo sull’opportunità della guerra e sulla condotta delle operazioni militari è un confronto aperto fra chi ne sostiene lo sforzo e chi ritiene che più di millecinquecento morti siano un prezzo già molto alto pagato per una stabilità che non c’è. In Italia si tratta di iniziare a vedere lo Stato come identità politica e culturale come un valore che non può svendersi su logiche economiche o opportunismi di élites politiche che dileggiano una bandiera che è simbolo di identità. Probabilmente l’Italia non sarà la Svizzera nella perfezione di un modello che non ci appartiene nella sua peculiarità. Ma l’Italia è uno Stato che deve trovare urgentemente una propria dimensione ed un’identità politica internazionale, da peso determinante e non da gregario.
Un peso politico che tradizioni storiche e culturali ci impongono. Lo sforzo per raggiungere un simile traguardo è nella volontà dei nostri soldati di affermare un’unanimità nella professionalità in ogni parte del mondo secondo le ragioni di un diritto che l’Italia difende senza derogarne l’uso a potenze di turno. Nella volontà di un italiano di difendere la vita di un altro italiano dovunque, anche in Iraq. Se per gli Stati Uniti lo sforzo bellico può esser condotto grazie alla quantità di uomini e mezzi e il livello delle perdite può rientrare in un costo ancora apprezzabile rispetto ai risultati che si intendono perseguire, l’Italia cerca, nei suoi limiti di media potenza, di affermare la qualità delle proprie risorse. Risorse preziose che non possono essere messe in gioco sul campo del tanto peggio tanto meglio, ma responsabili nel dover raggiungere un risultato che ne giustifichi l’impegno e anche la morte se necessario. Ed è su questo che un sentimento politico di identità nazionale dovrebbe assumere quel carattere di trasversalità che emargini ogni tentativo di disgregare un’Italia che è, per Calipari e per tutti noi, così dalla più estrema cima delle Alpi sino all’ultimo lembo mediterraneo.