
Sicuramente non doveva essere lo scopo di una festa sempre più malinconica della Repubblica ricordarci che l’Italia è cresciuta, per capacità di proiezione politica all’estero, anche per merito dei suoi soldati. Dovevano essere sufficienti i nostri caduti. Ma, probabilmente, il senso di rispetto e di valore delle nostre Forze Armate doveva fare i conti con una simbolica esteriorità pacifista. Un simbolismo manifestato come un estetismo da accessorio da parte di chi ha dimenticato quanto, e come, la storia delle idee si sia imposta anche attraverso l’uso di una forza sicuramente non pacifica. Una forza militare che ha accreditato totalitarismi di ogni colore, comunismo e fascismo, e verso i quali uomini di oggi ancora ne valutano alcuni aspetti quali esempi di virtuosità politica.
Lo dimostrano i caduti nelle battaglie inutili della Seconda Guerra Mondiale come nella lotta alla resistenza. Lo dimostrano le missioni fuori area a cui i pacifisti ricorrono come loro monopolio politico salvo lasciare, poi, sul terreno, ai soldati l’onere della condotta e della sicurezza e preferendo ben altro tipo di democratica violenza: quella dell’antagonismo delle piazze, delle bottiglie incendiarie, della dissacrazione dei nostri simboli e valori. Un valore ideologico, questo, che porta sino in Parlamento. Tuttavia, oggi, per chi crede in uno Stato maturo e democratico, orgogliosamente democratico, non si tratta di essere pacifisti. Sarebbe politicamente pleonastico per una democrazia come la nostra. Nessuno vuole la guerra. Tantomeno un soldato. Se poi questo soldato è italiano ancor meno.
Possiamo discutere sui modi e sulle intenzioni di un governo che ha abbandonato la difesa alla sua deriva post-missione, non decidendo cosa vorrà fare delle Forze Armate, in che termini vorrà qualificarne e valorizzarne il ruolo senza mortificare uomini e donne che sono anche strumento di politica estera al di fuori dell’ambito nazionale. E non so cosa significhi essere di destra o di sinistra in questa ridda di dichiarazioni e considerazioni sul ruolo dell’Italia e sulla politica militare. Credo, però, che abbandonarsi ad un pacifismo militante solo negli slogan o nella ripartizione di poltrone per un parlamentare ultimo arrivato e a necessità di titolo, quanto appropriarsene per debito di contributo elettorale per chi fa i conti di Presidenze possibili o dovute, non sia un’immagine da Paese maturo. In tutto questo il pacifismo non c’entra nulla. Vi è un’evidente, ulteriore svalutazione della professione e della missione dei militari italiani.
Credo che vi sia un’ipocrisia che domina l’arco politico diviso fra chi ne difende la dignità, ma solo per presunto, e comodo, credito politico come fa la destra, e chi la mortifica nelle logiche del potere come fa la sinistra. In una situazione così magmatica, non si darà del Paese un’immagine di stabilità e di credibilità necessaria per assolvere bene gli impegni internazionali nel nome della nostra sicurezza e della comunità internazionale, alla quale l’Italia vi partecipa e se ne assume oneri e responsabilità sulla pelle dei nostri soldati. Ma, soprattutto, in questa indecisione e di fronte ad un discredito militarista si indeboliscono gli animi e i sentimenti di chi, indossando le stellette, vorrebbe servire uno Stato democratico che sceglie di essere attore e non di presentarsi come il solito panchinaro difeso nei rischi da responsabilità altrui.