
In tutto questo, la scelta di una exit strategy da parte italiana all’impegno in Iraq sembra rientrare in una sorta di abbandono progressivo ammantato da una missione civile che, adesso, soffre della stessa poca chiarezza dell’avvio della missione avvenuto nel 2003 e della mancanza sin d’allora di obiettivi precisi. Che per il governo il ritiro delle forze dall’Iraq sia stato uno dei motivi sui quali costruire la campagna elettorale non vi sono dubbi. Ma è chiaro che, per quanto potremmo essere pacifisti e coerentemente contrari alla campagna militare per come è stata concepita e condotta, certamente oggi rischieremmo di abbandonare un patrimonio di esperienza e di cooperazione che con il popolo iracheno, nonostante tutto, si è realizzato.
D’Alema gioca, molto astutamente, ad una politica di appeasement soprattutto nei confronti degli alleati interni nel tentativo di accreditarsi come l’uomo di governo inserito al posto giusto. Ma la filosofia dei paradossi, ritiro dall’Iraq oggi quando fu D’Alema a permettere l’invio delle forze aeree italiane nella guerra in Kosovo al di là di ogni necessaria e preliminare pronuncia parlamentare, sembra riproporre una politica estera da palcoscenico dove fare il buonista paga e l’interventista, se di maggioranza, pure.
La realtà odierna è molto diversa. È in gioco la credibilità dell’Occidente e sono in discussione gli stessi rapporti interatlantici fra Stati Uniti ed Europa. Un gioco allo scisma occidentale che avrebbe come prima vittima proprio l’Europa e dell’Europa una fra le nazioni a minor forza contrattuale: l’Italia. Il futuro dell’Iraq appartiene al futuro del mondo e qualunque subalternità questa volta all’orgoglio europeo o italiano, se così si può definire, non potrà che isolare l’Europa e l’Italia dal resto della comunità internazionale lasciando la scena ad attori ben più capaci come Hamas, Ahmadinejad, o lo stesso Bin Laden o a quanto resta di ogni altra sua controfigura.
Nella corsa all’uscita dall’Iraq si rischia di commettere gli stessi errori dell’avvio. Il primo, nel confondere quanto ci sarà di umanitario e chi e in che termini difenderà lo sforzo civile che si sostituirà ad uno sforzo militare sino a ieri condotto a metà. Il secondo, nel non riuscire ad esprimere una concreta volontà politica nel favorire un processo di nation-building in corso e che dovrebbe mirare - nella realizzazione di coalizioni allargate, grazie all’opera dell’ayatollah Al-Sistani e al nuovo Presidente iracheno - ad amalgamare diversità per sottrarre terreno ad una pericolosissima unità islamica che tenta di superare posizioni scismatiche in nome di un universalismo religioso, ma con obiettivi di dominio politico ed economico. Il terzo è che ogni ideologizzazione della politica estera si trasforma in un’idea da operetta se alle idee non seguono posizioni chiare e obiettivi precisi.
È questa la differenza fra una politica estera da promozione e da segreteria politica, dottrinale, teorica e di circostanza, da quella fatta sul campo e a cui bisognerebbe ispirarsi senza svalutare l’opera di diplomatici e militari a favore di chi promuove personalismi nel mondo a destra ieri, a sinistra oggi.